Fotografare per ricordare, o per dimenticare?

Un bel paesaggio, una serata tra amici, una mostra, una pietanza, un bacio, ogni occasione è buona per immortalare quel momento con il nostro smartphone. Ma perché? Per non dimenticarlo, per rivederlo tra qualche tempo quando il momento sarà passato, insomma per fermare il tempo, o forse semplicemente per il bisogno di condividerlo su un social network. Ma cosa succede realmente alla nostra memoria se interponiamo il telefonino tra noi e il mondo, tra noi e un’emozione, per fotografare qualcosa che scegliamo di vedere attraverso un obiettivo anziché assaporarla con i nostri occhi?

Per rispondere a questa domanda, vi invito a immaginare di trovarvi all’ingresso di una mostra di un pittore a voi gradito, e di leggere il cartello “No photo please”. A quel punto, rammaricati di non poter collezionare immagini di opere d’arte, sarete costretti ad osservare, vi prenderete più tempo nello scorgere, in un quadro, emozioni e significati, sarete più lenti a camminare per guardare bene cosa c’è intorno ed etichettarlo come entusiasmante, o meno, vi aprirete alle emozioni per decidere a quali dare ascolto e permettervi una contemplazione di quanto, dopo questa analisi, avrete scelto. E con lo smartphone? Probabilmente l’ansia di fotografare tutto, vi impedirebbe di scegliere con quale quadro emozionarvi, e di prendere il tempo che vi necessita per osservare, intorno, davanti a voi, fino all’ultimo dettaglio di quella fantastica opera d’arte.

 

Fotografia e memoria    

Linda Henkel, psicologa e ricercatrice presso la Fairfield University (Usa) spiega che, nel fotografare è come se delegassimo all’obiettivo, il ricordo di quanto sta avvenendo, senza porre particolare attenzione ai dettagli, convinti che tanto, qualora volessimo scoprirli, potremmo riprendere quella foto dalla memoria digitale. Risultato: impigriamo la nostra memoria, o per dirlo con la Henkel “People so often whip out their cameras almost mindlessly to capture a moment, to the point that they are missing what is happening right in front of them”.

In una ricerca da lei condotta, un gruppo di partecipanti, visitatori del Bellarmine Museum of Art, venivano invitati a fotografare oppure osservare delle opere, testandone, nel giorno seguente, la memoria. Il risultato fu che, coloro che avevano semplicemente osservato, furono in grado di fornire maggiori dettagli rispetto alla loro osservazione, al contrario di quelli che invece, fotografando, si sono persi molti dettagli. A questo proposito la Henkel parla di “photo taking impairment effect”. Diversamente invece, l’indebolimento diminuiva quando veniva chiesto ai partecipanti di zoomare una parte degli oggetti. In quel caso le informazioni trattenute erano maggiori, questo, secondo la Henkel, perché l’occhio umano è diverso da quello digitale.

A conclusione di quanto detto, la Psicologa afferma che bisognerebbe essere più selettivi negli scatti, e lasciare del tempo dedicato a goderci il momento che stiamo vivendo, allenando così la nostra memoria.

 

Cosa potremmo perderci

Immaginate ad esempio di andare a quella partita di calcio tanto importante di vostro figlio. È la finale, dobbiamo immortalare, per forza! Prendiamo il nostro smartphone e facciamo un fantastico album di foto che mostreremo a tutti i nostri contatti Facebook e alla tanto cara vicina di casa che non è potuta venire alla partita. Facciamo anche un video, fatto bene però, con attenzione, sennò viene mosso! Il gioco è fatto, la partita è immortalata…ma…nostro figlio? Una buona letteratura scientifica si è occupata di spiegare come e perché, un bambino, in situazioni stressanti, ricerca il volto delle figure di riferimento. E questa è un’operazione che dura pochissimi secondi, uno screening velocissimo che viene fatto utilizzando un’area specifica che si trova nel lobo temporale (Area Fusiforme per le Facce), che ha immagazzinato durante le prime fasi della vita, informazioni visive riferite ai volti delle persone “importanti”, e l’amigdala che invece discrimina le espressioni, utilizzando quella banca dati alla ricerca di un volto in mezzo a una platea.

Ma ci pensate se in questa operazione velocissima, con un notevole livello di stress, il suo cervello, cercando il vostro volto in mezzo alla gente, vedesse interposto un cellulare tra voi e lui? Considerando che un neonato già dopo il 30esimo minuto di vita è in grado di distinguere le facce dagli oggetti (quindi un telefono da un volto), capite che per il bambino e per il suo stress, trovare il vostro volto, con fatica, e coperto da un cellulare, non sarà proprio un’esperienza rasserenante. A questo punto, pensando a come costruirà il “suo” ricordo (né quello della vicina di casa, né dei 432 amici di Facebook), è importante tener conto di come, un evento del genere, associato a situazioni stressanti, andrà ad influenzare non solo la formazione della sua autostima ma anche la fiducia in voi. Per non parlare di voi, che per non far venire quel video mosso, avete finito per guardare metà partita direttamente dal cellulare, in modo da poter monitorare bene l’inquadratura, riducendo la vostra visuale e dettagli importanti. La prossima volta meglio portare la vicina…e far fare le foto a lei!

 

Ma lo scatto compulsivo è da condannare?

Pensiamo a Andy Warhol che legge il mio articolo, non sarebbe proprio d’accordo su tutto. Lui con il suo uso compulsivo e seriale della fotografia ha creato un vero e proprio movimento artistico. Da qualche parte a una sua mostra, lessi che Warhol arrivò a scattare anche 36 fotogrammi al giorno, creando quasi 500 opere tra il 1982 e il 1987. Non aveva uno smartphone, e nemmeno un hard disk esterno, ma ci sapeva fare.

Prima di lui anche Bernhard e Hilla Becher, precursori dell’anti pittorico, producevano scatti seriali in bianco e nero di oggetti inanimati (strutture industriali), che in qualche modo hanno influenzato la grande fotografia di oggi.

Per non parlare di Eadweard Muybridge, il famoso “fotografo del movimento”, che utilizzando 24 fotocamere collegate tra loro, creò delle sequenze di immagini e progettando lo Zoopraxiscopio, divenne precursore del cinema.

Questi sono esempi di come, trascorrendo tanto tempo dietro una fotocamera, si possono ottenere risultati "emozionanti ed emozionati". Tocca quindi trovare un equilibrio tra lo scatto compulsivo e il godimento dell’occhio nudo, perché la foto sia davvero un modo per ricordare e per attivare la nostra memoria tornando indietro nel tempo…almeno in quei casi in cui ovviamente, non abbiamo la vicina di casa a disposizione!

 

Fotografia e psicoterapia

Mi capita spesso di usare la fotografia con alcuni pazienti, le immagini diventano attivatori dell’inconscio, di emozioni represse, e uno strumento di comunicazione laddove le parole non arrivano.

Diceva Susan Sontag: “Ogni fotografia è un memento mori… Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo.” La fotografia come mezzo di comunicazione è carica di metafore e simboli, congiunzione tra la sfera verbale e quella sensoriale. Le fotografie possono essere quindi un mezzo per coloro che non riescono ad entrare in contatto con sé e con l’altro attraverso le parole, uno stimolo di partenza per una comunicazione efficace e un’esplorazione di sé.

 

 

Fonti:

   Henkel, L. A. (2014).  Point and shoot memories: The influence of taking photos on memory for a museum tour.  Psychological Science, 25, 396-402.

   O. Pascalis, L. S. Scott, D. J. Kelly, R. W. Shannon, E. Nicholson, M. Coleman, C. A. Nelson, “Plasticity of face processing in infancy“. Proceedings of the National Academy of Sciences (2005).

  S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine della nostra società. Einaudi 1992.